Oltre al cinema, Kiarostami è stato un poeta raffinato e un maestro della fotografia statica, capace di cogliere le sfumature della vita e della natura con una visione artistica unica. La sua filosofia creativa abbracciava spesso la semplicità, l’ambiguità e la bellezza del quotidiano. L’eredità di Kiarostami continua a ispirare cineasti e artisti in tutto il mondo, offrendo una prospettiva senza tempo sull’intreccio tra arte, vita e relazione umana.

Oltre al cinema, Kiarostami è stato un poeta raffinato e un maestro della fotografia statica, capace di cogliere le sfumature della vita e della natura con una visione artistica unica. La sua filosofia creativa abbracciava spesso la semplicità, l’ambiguità e la bellezza del quotidiano. L’eredità di Kiarostami continua a ispirare cineasti e artisti in tutto il mondo, offrendo una prospettiva senza tempo sull’intreccio tra arte, vita e relazione umana.


Oltre al cinema, Kiarostami è stato un poeta raffinato e un maestro della fotografia statica, capace di cogliere le sfumature della vita e della natura con una visione artistica unica. La sua filosofia creativa abbracciava spesso la semplicità, l’ambiguità e la bellezza del quotidiano. L’eredità di Kiarostami continua a ispirare cineasti e artisti in tutto il mondo, offrendo una prospettiva senza tempo sull’intreccio tra arte, vita e relazione umana.

Parlare di poesia, nel cinema, può risultare il più delle volte l’esercizio di una stucchevole retorica, come il famoso “pugno nello stomaco” che dovrebbe darci l’immediata sensazione di una nausea artistica quando invece, ormai da tempo, rinviene nei più solo nausea fisico/semantica. Ecco, per Kiarostami faremo volentieri uso di un tropo abusato come questo, perché la ricerca di termini alternativi rischia di compromettere il messaggio, la tecnica, la ricerca stessa di un autore giustamente glorificato da tutti i più grandi registi come uno dei loro epigoni, degno di prendere posto nel gotha a cui essi stessi appartengono. Kiarostami è l profeta di un Iran scottato da decenni di rivolzione religiosa, un profeta laico che rifugge la violenza ideologica per abbracciare i toni malinconici, estatici e popolari di un cinema antico che racconta l'attualità, la difficoltà del quotidiano, senza mai scadere nella propaganda d'opposizione. Poeta dell’assenza, dell’attesa, degli attimi imprigionati in campi larghi, nella particellare ripetizione di vite qualunque, dello sguardo critico senza che questo venga assimilato da un approccio militante e politico in senso stretto; il nostro permea le immagini di grandi contrasti, dai panorami enormi che esaltano l’irrilevanza di creature senza nome, e contemporaneamente la tenerezza delle loro stesse vite ; la spontaneità degli attori/non attori che calcano il palco desertico di un mondo che non ci vuole, che frena l’umanità dei gesti e delle vite intersecate in un’unica, trepida danza di quadri in movimento. Esiste forse un regista più antiamericano? L'occhio che non giudica ma osserva, che deduce l'invisibile, racconta il silenzio, è l'autoimposta scelta di un universo di possibilità, e in quel dispiegarsi di galassie potenziali, anche i nostri occhi partecipano allo scontro tra immagine e concetto, tra suono e lontananza, vagando alla ricerca del senso delle vite impresse sullo schermo come si fa con la propria: una ripetizione di sguardi alla ricerca del proprio specchio, forse per scoprire solo alla fine che, in quella superficie che sembra dover riflettere i nostri tormenti, abitano tormenti più grandi e più lontani. Allora vediamo il mondo/i mondi attraverso lo sguardo degli ultimi, eppure costoro non giudicano, fissi in camera, ora nascosti ora disvelati, non danno modo a noi di giudicarli se non per la superficie, sfidando lo spettatore ad essere più che semplice ricevitore, ma a divenire interprete di un linguaggio e di occhi che non lo riflettono, perché mai mitici, epici, mai al di là della miseria umana e della comune lontananza di vite tutte uguali nella loro hybris primigenia. Così ci si avvicina e si permea, per quanto possibile, una cultura che rifugge il nostro sguardo: soffrendo le infinite possibilità che, dall'altra parte dello specchio, il viso che ci accoglie non sia il nostro. E che si possa fare esperienza di ciò che noi non siamo, tramutandola in conoscenza, è ciò che ci si attende dall'arte e dal cinema. Ciò che Kiarostami ci regala.

Parlare di poesia, nel cinema, può risultare il più delle volte l’esercizio di una stucchevole retorica, come il famoso “pugno nello stomaco” che dovrebbe darci l’immediata sensazione di una nausea artistica quando invece, ormai da tempo, rinviene nei più solo nausea fisico/semantica. Ecco, per Kiarostami faremo volentieri uso di un tropo abusato come questo, perché la ricerca di termini alternativi rischia di compromettere il messaggio, la tecnica, la ricerca stessa di un autore giustamente glorificato da tutti i più grandi registi come uno dei loro epigoni, degno di prendere posto nel gotha a cui essi stessi appartengono. Kiarostami è l profeta di un Iran scottato da decenni di rivolzione religiosa, un profeta laico che rifugge la violenza ideologica per abbracciare i toni malinconici, estatici e popolari di un cinema antico che racconta l'attualità, la difficoltà del quotidiano, senza mai scadere nella propaganda d'opposizione. Poeta dell’assenza, dell’attesa, degli attimi imprigionati in campi larghi, nella particellare ripetizione di vite qualunque, dello sguardo critico senza che questo venga assimilato da un approccio militante e politico in senso stretto; il nostro permea le immagini di grandi contrasti, dai panorami enormi che esaltano l’irrilevanza di creature senza nome, e contemporaneamente la tenerezza delle loro stesse vite ; la spontaneità degli attori/non attori che calcano il palco desertico di un mondo che non ci vuole, che frena l’umanità dei gesti e delle vite intersecate in un’unica, trepida danza di quadri in movimento. Esiste forse un regista più antiamericano? L'occhio che non giudica ma osserva, che deduce l'invisibile, racconta il silenzio, è l'autoimposta scelta di un universo di possibilità, e in quel dispiegarsi di galassie potenziali, anche i nostri occhi partecipano allo scontro tra immagine e concetto, tra suono e lontananza, vagando alla ricerca del senso delle vite impresse sullo schermo come si fa con la propria: una ripetizione di sguardi alla ricerca del proprio specchio, forse per scoprire solo alla fine che, in quella superficie che sembra dover riflettere i nostri tormenti, abitano tormenti più grandi e più lontani. Allora vediamo il mondo/i mondi attraverso lo sguardo degli ultimi, eppure costoro non giudicano, fissi in camera, ora nascosti ora disvelati, non danno modo a noi di giudicarli se non per la superficie, sfidando lo spettatore ad essere più che semplice ricevitore, ma a divenire interprete di un linguaggio e di occhi che non lo riflettono, perché mai mitici, epici, mai al di là della miseria umana e della comune lontananza di vite tutte uguali nella loro hybris primigenia. Così ci si avvicina e si permea, per quanto possibile, una cultura che rifugge il nostro sguardo: soffrendo le infinite possibilità che, dall'altra parte dello specchio, il viso che ci accoglie non sia il nostro. E che si possa fare esperienza di ciò che noi non siamo, tramutandola in conoscenza, è ciò che ci si attende dall'arte e dal cinema. Ciò che Kiarostami ci regala.

Parlare di poesia, nel cinema, può risultare il più delle volte l’esercizio di una stucchevole retorica, come il famoso “pugno nello stomaco” che dovrebbe darci l’immediata sensazione di una nausea artistica quando invece, ormai da tempo, rinviene nei più solo nausea fisico/semantica. Ecco, per Kiarostami faremo volentieri uso di un tropo abusato come questo, perché la ricerca di termini alternativi rischia di compromettere il messaggio, la tecnica, la ricerca stessa di un autore giustamente glorificato da tutti i più grandi registi come uno dei loro epigoni, degno di prendere posto nel gotha a cui essi stessi appartengono. Kiarostami è l profeta di un Iran scottato da decenni di rivolzione religiosa, un profeta laico che rifugge la violenza ideologica per abbracciare i toni malinconici, estatici e popolari di un cinema antico che racconta l'attualità, la difficoltà del quotidiano, senza mai scadere nella propaganda d'opposizione. Poeta dell’assenza, dell’attesa, degli attimi imprigionati in campi larghi, nella particellare ripetizione di vite qualunque, dello sguardo critico senza che questo venga assimilato da un approccio militante e politico in senso stretto; il nostro permea le immagini di grandi contrasti, dai panorami enormi che esaltano l’irrilevanza di creature senza nome, e contemporaneamente la tenerezza delle loro stesse vite ; la spontaneità degli attori/non attori che calcano il palco desertico di un mondo che non ci vuole, che frena l’umanità dei gesti e delle vite intersecate in un’unica, trepida danza di quadri in movimento. Esiste forse un regista più antiamericano? L'occhio che non giudica ma osserva, che deduce l'invisibile, racconta il silenzio, è l'autoimposta scelta di un universo di possibilità, e in quel dispiegarsi di galassie potenziali, anche i nostri occhi partecipano allo scontro tra immagine e concetto, tra suono e lontananza, vagando alla ricerca del senso delle vite impresse sullo schermo come si fa con la propria: una ripetizione di sguardi alla ricerca del proprio specchio, forse per scoprire solo alla fine che, in quella superficie che sembra dover riflettere i nostri tormenti, abitano tormenti più grandi e più lontani. Allora vediamo il mondo/i mondi attraverso lo sguardo degli ultimi, eppure costoro non giudicano, fissi in camera, ora nascosti ora disvelati, non danno modo a noi di giudicarli se non per la superficie, sfidando lo spettatore ad essere più che semplice ricevitore, ma a divenire interprete di un linguaggio e di occhi che non lo riflettono, perché mai mitici, epici, mai al di là della miseria umana e della comune lontananza di vite tutte uguali nella loro hybris primigenia. Così ci si avvicina e si permea, per quanto possibile, una cultura che rifugge il nostro sguardo: soffrendo le infinite possibilità che, dall'altra parte dello specchio, il viso che ci accoglie non sia il nostro. E che si possa fare esperienza di ciò che noi non siamo, tramutandola in conoscenza, è ciò che ci si attende dall'arte e dal cinema. Ciò che Kiarostami ci regala.

Parlare di poesia, nel cinema, può risultare il più delle volte l’esercizio di una stucchevole retorica, come il famoso “pugno nello stomaco” che dovrebbe darci l’immediata sensazione di una nausea artistica quando invece, ormai da tempo, rinviene nei più solo nausea fisico/semantica. Ecco, per Kiarostami faremo volentieri uso di un tropo abusato come questo, perché la ricerca di termini alternativi rischia di compromettere il messaggio, la tecnica, la ricerca stessa di un autore giustamente glorificato da tutti i più grandi registi come uno dei loro epigoni, degno di prendere posto nel gotha a cui essi stessi appartengono. Kiarostami è l profeta di un Iran scottato da decenni di rivolzione religiosa, un profeta laico che rifugge la violenza ideologica per abbracciare i toni malinconici, estatici e popolari di un cinema antico che racconta l'attualità, la difficoltà del quotidiano, senza mai scadere nella propaganda d'opposizione. Poeta dell’assenza, dell’attesa, degli attimi imprigionati in campi larghi, nella particellare ripetizione di vite qualunque, dello sguardo critico senza che questo venga assimilato da un approccio militante e politico in senso stretto; il nostro permea le immagini di grandi contrasti, dai panorami enormi che esaltano l’irrilevanza di creature senza nome, e contemporaneamente la tenerezza delle loro stesse vite ; la spontaneità degli attori/non attori che calcano il palco desertico di un mondo che non ci vuole, che frena l’umanità dei gesti e delle vite intersecate in un’unica, trepida danza di quadri in movimento. Esiste forse un regista più antiamericano? L'occhio che non giudica ma osserva, che deduce l'invisibile, racconta il silenzio, è l'autoimposta scelta di un universo di possibilità, e in quel dispiegarsi di galassie potenziali, anche i nostri occhi partecipano allo scontro tra immagine e concetto, tra suono e lontananza, vagando alla ricerca del senso delle vite impresse sullo schermo come si fa con la propria: una ripetizione di sguardi alla ricerca del proprio specchio, forse per scoprire solo alla fine che, in quella superficie che sembra dover riflettere i nostri tormenti, abitano tormenti più grandi e più lontani. Allora vediamo il mondo/i mondi attraverso lo sguardo degli ultimi, eppure costoro non giudicano, fissi in camera, ora nascosti ora disvelati, non danno modo a noi di giudicarli se non per la superficie, sfidando lo spettatore ad essere più che semplice ricevitore, ma a divenire interprete di un linguaggio e di occhi che non lo riflettono, perché mai mitici, epici, mai al di là della miseria umana e della comune lontananza di vite tutte uguali nella loro hybris primigenia. Così ci si avvicina e si permea, per quanto possibile, una cultura che rifugge il nostro sguardo: soffrendo le infinite possibilità che, dall'altra parte dello specchio, il viso che ci accoglie non sia il nostro. E che si possa fare esperienza di ciò che noi non siamo, tramutandola in conoscenza, è ciò che ci si attende dall'arte e dal cinema. Ciò che Kiarostami ci regala.

ABBAS KIAROSTAMI

ABBAS KIAROSTAMI

۱۹۹۴


از میان درختان زیتون



۱۹۹۴


از میان درختان زیتون



۱۹۹۴


از میان درختان زیتون



Through the Olive Trees

1994

Through the Olive Trees

1994

Through the Olive Trees

1994

۱۹۹۴

خانه دوست کجاست؟

۱۹۹۴

خانه دوست کجاست؟

۱۹۹۴

خانه دوست کجاست؟

Where is the friends house

1987

Where is the friends house

1987

Where is the friends house

1987

۱۹۹۴

نمای نزدیک

۱۹۹۴

نمای نزدیک

۱۹۹۴

نمای نزدیک

Close up

1990

Close up

1990

Close up

1990

۱۹۹۴

نمای نزدیک

۱۹۹۴

نمای نزدیک

۱۹۹۴

نمای نزدیک

Taste of Cherry

1997

Taste of Cherry

1997

Taste of Cherry

1997